La leggenda del Nanga Parbat, tra film, imprese e morti

Ultimo aggiornamento: 29.03.24

 

Con i suoi 8.126 metri di altezza, il Nanga Parbat della catena himalayana è la nona montagna più alta della Terra. In molti hanno provato a scalarla, in pochi ci sono riusciti. Scopriamo il perché.

 

Conosciuto anche come Nangaparbat Peak o Diamir, il Nanga Parbat è un gruppo montuoso situato nella regione settentrionale del subcontinente indiano fra India e Pakistan, la cui cima più elevata si trova a 8.126 metri sopra il livello del mare. Oltre a essere la nona montagna più alta della Terra, è stata scenario di numerose imprese epiche che hanno coinvolto alpinisti da ogni parte del globo, molte delle quali però sono finite in tragedia con un rapporto di circa il 28% tra numero delle vittime e quello degli scalatori di montagne arrivati in vetta.

Non a caso gli sherpa della regione dell’Himalaya la chiamano “montagna del diavolo” proprio perché rappresenta uno dei massicci più difficili da scalare e la lista di persone che hanno perso la vita su questa cima si allunga continuamente.

Leggendo le varie news sul Nanga Parbat si comprende perché è da decenni il sacro Graal dei migliori alpinisti del mondo, costituendo un traguardo molto ambito per chi vuole mettersi alla prova con sfide avventurose ed emozionanti che, una volta vinte, permettono di entrare nel leggendario Pantheon degli scalatori.

La storia del Nanga è infatti costellata di leggende ed episodi che ne confermano il forte valore simbolico e, negli ultimi tempi, è salito di nuovo alla ribalta delle cronache sia per il successo di alcune imprese invernali sia per le tragiche epopee che hanno fatto emergere la pericolosità delle sue vie di arrampicata.

Conformazione del Nanga Parbat

Il Nanga Parbat ha una conformazione geografica e strutturale piuttosto complessa, costituita da tre principali pareti rocciose separate dalle dorsali del massiccio. La cresta più lunga si sviluppa ad arco ed è costituita da diverse cime, con la più alta che arriva a 8.126 metri di altezza.

La parete sul versante nord-ovest prende il nome di Diamir e dalla sua sommità è possibile scorgere la vetta secondaria a nord-est, raggiungibile solo scalando l’impervia parete Rakhiot, e lo Sperone Mummery, famoso per la prima arrampicata del massiccio tentata da Albert Frederick Mummery.

A sud-est è situata la parete Rupal, la più elevata del mondo e violata per la prima volta dai fratelli Messner nel 1970, che riuscirono in un’impresa titanica lungo un percorso caratterizzato da ben 4.500 metri di dislivello dislocati su un muro completamente verticale.

 

Storia e leggende del Nanga Parbat

Nanga Parbat, la montagna del destino dei tedeschi, Diamir, Montagna Nuda, Re delle Montagne… sono davvero tanti i nomi attribuiti nel corso della storia a questo massiccio montuoso del Kashmir, ma il più rappresentativo è probabilmente “the Killer Mountain” – la montagna assassina. Sì, perché sebbene gli accessi che permettono di arrivare ai campi base della montagna siano relativamente facili, raggiungerne la vetta è un altro paio di maniche. Nel corso degli anni sono state aperte diverse vie sul Nanga Parbat, ognuna con un livello di difficoltà differente.

Le più famose sono: via Kinshofer, il tracciato maggiormente battuto dagli alpinisti intenzionati a conquistare la vetta scalando il Muro Kinshofer sul versante Diamir; la via del primo scalatore, aperta nel 1953 dalla spedizione capitanata da Karl Herrligkoffer per salire sul versante Rakhiot; e la Via Messner del 1970, che costituisce il primo percorso alpinistico del versante Rupal sul Nanga Parbat, realizzato e completato per la prima volta dai fratelli Messner, a cui si deve appunto il nome.

A emulare l’impresa furono i polacchi Zygmunt Heinrich, Jerzy Kukuczka e Sławomir Łobodziński, che aprirono un nuovo tracciato sul pilastro sud-est della parete nel 1985, e venti anni più tardi gli americani Vince Anderson e Steve House, che salirono lungo il pilastro centrale realizzando una delle scalate più spettacolari di tutti i tempi e aggiudicandosi l’ambito premio Piolet d’Or.

Dopo l’interruzione delle scalate in montagna durante la Seconda Guerra Mondiale, la prima spedizione per conquistare il versante Rakhiot coinvolse il medico tedesco Karl Maria Herrligkoffer, fratellastro dell’alpinista Willy Merkl che perse la vita nel 1932 proprio nel tentativo di scalare la montagna.

La sua impresa rimase nella storia perché fu il primo a raggiungere la cima in solitaria senza bombole di ossigeno, conquistando la vetta il 3 luglio 1953. Più numerose furono le successive scalate invernali della Killer Mountain: nell’inverno del 1989 ci provò Maciej Berbeka insieme ad altri otto alpinisti polacchi e il primo scalatore italiano del Nanga Parbat della storia.

La missione, purtroppo, non andò a buon fine poiché, dopo aver toccato i 6.500 metri di quota sulla parete Rupal, dovettero rinunciare a causa del forte vento e delle temperature estreme. Successivamente, toccò ai francesi Eric Monier e Monique Loscos nell’inverno 1992-1993, che arrivarono solo a 6.000 metri, e dopo circa dieci anni alla spedizione polacca di Krzysztof Wielicki che tentò di salire lungo la Kinshofer, fermandosi però a un centinaio di metri dalla cima per colpa di una violenta bufera di neve che distrusse gli accampamenti.

Nel 2011 Simone Moro e Denis Urubko tentarono l’incompiuta Messner-Eisendle, completata solo da Tomasz Mackiewicz ed Elisabeth Revol nell’inverno 2017-2018.

La tragedia di Tom Ballard e Daniele Nardi

Tra le tante missioni che hanno tentato la scalata del Nanga Parbat, alcune purtroppo si sono concluse tragicamente. Nell’inverno tra il 2018 e il 2019 Daniele Nardi prese parte a una spedizione sulla montagna del destino insieme a Tom Ballard, alpinista britannico figlio di Alison Hargreaves (la prima donna ad aver scalato l’Everest da sola).

Il loro obiettivo era quello di arrivare in vetta realizzando la prima salita dello storico Sperone Mummery, così chiamato in onore del celebre alpinista britannico Albert Mummery che perse la vita proprio su quella parete rocciosa il 24 agosto 1895. Dopo essersi stabiliti al Campo Base del Nanga Parbat il 29 dicembre del 2018 insieme ai pakistani Karim Hayat e Rahmat Ullah Baig, in sole due settimane allestirono quattro campi rispettivamente a quota 4.700, 5.200 e 5.700 metri.

L’impresa sembrava promettente, almeno fino a quando i due scalatori non si imbatterono in una violenta tempesta di neve proprio sulle pendici dello sperone Mummery il 24 febbraio 2019, giorno in cui si persero le loro tracce.

A causa del maltempo e della chiusura dello spazio aereo pakistano dovuto alle tensioni politiche tra India e Pakistan, gli interventi di soccorso subirono ingenti ritardi e, dopo diverse perlustrazioni della parete rocciosa mediante droni, telescopi, binocoli e corde da arrampicata, il 6 marzo la squadra di Álex Txikon (altro famoso scalatore italiano, impegnato in quel periodo al K2), avvistò le sagome dei due alpinisti nei pressi della parte rocciosa.

Dopo che le immagini scattate dall’alto furono inviate alle famiglie degli scalatori e all’ambasciatore italiano in Pakistan Stefano Pontecorvo, si giunse alla conclusione che i corpi rinvenuti fossero proprio quelli di Nardi e Ballard. Tuttavia, dal momento che si trovavano in una zona impervia e particolarmente difficile da raggiungere anche con gli elicotteri, tre giorni più tardi la missione fu dichiarata conclusa, con l’amara decisione nel novembre 2019 che i corpi dei due scalatori non sarebbero stati più recuperati.

A seguito dell’accaduto, la scalata del famigerato Sperone Mummery rimane ancora oggi una meta che nessuno è riuscito a raggiungere.

 

 

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